Ho ripensato alle estati di quando ero piccola o adolescente, le estati che tutti ricordano, quelle in genere spensierate, quelle che lasciavano liberi dalla scuola, quelle che non sapevamo fossero le migliori.
Le mie estati significavano campagna e mare.
Il mare un mese di casa in affitto, con papà che arrivava in vespa nei week end e a ferragosto perché doveva lavorare e campagna dai nonni. Anzi dal nonno perché la nonna era morta quando io avevo pochi mesi e lui si era risposato con una donna che io non ho mai considerato nonna perché la nonna non sapeva fare. Era così allegra che in famiglia era soprannominata “due di novembre”. Fate voi.
Campagna significava anche visite ai nonni paterni che abitavano lì vicino ma che erano sempre impegnati nei campi e nella stalla.
Così ripensando a quel periodo piccoli flash di memoria mi hanno riportato alla mente episodi dimenticati.
L’assoluto divieto di avvicinarmi alla bottega del nonno (era falegname) durante il giorno perché i macchinari erano molto pericolosi, ma la gioia serale quando il nonno, staccato l’interruttore generale mi permetteva con un grosso pennello di pulire la polvere di legno e i trucioli che durante il giorno avevano ricoperto le sue zone di lavoro.
Il profumo di basilico quando il nonno si chinava a prendermi in spalla perché aveva sempre un ciuffetto di basilico fra le labbra.
Le prugne zucchelle rigorosamente acerbe di cui mi riempivo le tasche di nascosto (se mi vedevano urlavano che mi avrebbe fatto male la pancia) e che mangiavo, sempre di nascosto, mentre giocavo con gli altri bambini a nascondino.
L’ubriacatura appena undicenne (unica della mia vita) perché una amichetta poco più grande di me aveva preparato i ghiaccioli di Liquore Strega naturalmente facendomeli assaggiare senza dirmi di che cosa erano fatti, ed erano così buoni e freschi che ne succhiai così tanti da dover fingere un mal di testa e andare subito a letto per nascondere a tutti la mia bravata.
Il nonno non capì ma avrebbe dovuto visto che non mangiai e ancora oggi tutti sanno che se non mangio ci deve essere una ragione così grave da doversi preoccupare.
Le corse nei prati con il cagnolino del nonno e il suo infilarsi sotto la mia sdraio mentre riposavo il pomeriggio, un meticcio simile ad un volpino completamente bianco che adoravo.
Lui che faceva incursioni nella catasta di legna in cantina a catturare piccoli topini e che stava ore in punta per catturare un riccio tornando con la sua preda e gli aculei conficcati nella pelle sanguinante, e che terminò la sua vita mentre correva dalle sue “amanti” in calore schiacciato da un camion. Il primo grande dolore della mia vita.
Per anni vedemmo in giro piccoli cloni di Riky nati dalle cagnoline che lui amava in paese.

I pomeriggi passati a tagliare le cime delle cipolle nell’aia e metterle in cassette perché il nonno paterno, che non mi ospitava ma abitava lì vicino, era fattore e gestiva campi e bestiame per “il padrone”.
Le mucche nelle stalle che avevano un nome ciascuna scritto a mano su una tavoletta di legno (Stella, Nera, Bigia, Rosa, Lalla ecc.) e i vitellini appena nati, e poi i pulcini dentro le cassette che diventavano sgraziati polli, e cercare le uova deposte dalle galline ancora calde.
I conigli liberi nel grosso serraglio, io che cercavo di accarezzarli perché erano così morbidi ma che qualche volta mi morsicavano con quei denti aguzzi e bramosi di bucce di cocomero che portavo con parsimonia perché troppa poteva far loro male. E l’inevitabile fine dei conigli che mi veniva risparmiata salvo nella “spelatura” che mi veniva descritta come “togliamo il pigiama al coniglio”.
Confesso che anche ora, in età adulta, non riesco a mangiare conigli.
I gattini che avevo trovato in un fienile e portandoli orgogliosa a far veder al nonno mi si erano arrampicati in testa graffiandomi tutta la faccia perché mi era venuto incontro il cane abbaiando.
Le escursioni al caseificio per farci dare il “tosone” che mangiavamo avidamente mentre tornavamo a casa.
Il teatrino che io e Marilena (quella del Liquore Strega) allestivamo per gli abitanti delle case vicine che si sedevano sulle panche e ci ascoltavano recitare quei versi imparati a memoria e applaudivano ad ogni nostra esibizione.
Il piccolo canale con l’acqua limpida in cui volavano libellule e dove l’acqua arrivava alle cosce e rinfrescava nelle calde giornate estive. Impensabile adesso pensare di infilare anche solo un piede nell’acqua del canale.
I bozzi causati dalle ortiche dove inevitabilmente si finiva risalendo dal canale.
E tanti altri ricordi che fluiscono ad uno ad uno e che potrebbero essere materiale per un libro nelle mani di un esperto scrittore ma troppo estesi per un blog.
Mi fermo qui dopo avervi regalato piccoli scorci delle mie estati serene e del mare vi racconterò un’altra volta.
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