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Pensavo poco fa a quanto io sia restia a liberarmi delle cose vecchie e usate, soprattutto relativamente all’abbigliamento.
Così come ho sempre trovato facile traslocare da un luogo all’altro senza avere nessun tipo di rimpianto e di nostalgia, ogni anno il cambio degli armadi è, invece, un trauma e una battaglia persa per quanto riguarda lo spazio.
Intendiamoci, riesco sempre a eliminare alcune cose e le porto a chi ha bisogno, ma dovrei riuscire a fare un più radicale intervento per liberare spazio.
Mi sono chiesta l’origine di questo mio problema.
L’origine è probabilmente in un imprinting che ho assorbito da piccola (non è né il primo né l’ultimo di cui mi sentirete parlare).
La frase che mi macina in testa è “non si sa mai un domani”.
L’accumulo spesso è frutto di uno stato ansioso che ti crea timore per il futuro.
Io appartengo ad una generazione i cui genitori spesso non se la passavano benissimo. Quando io ero piccola occorreva fare i conti per ogni cosa, papà aveva intrapreso la strada dell’autonomia lavorativa con tutti i rischi conseguenti: l’ignoto, il cercarsi i clienti, l’investimento sugli attrezzi e il luogo dove svolgere l’attività, mamma era casalinga.
Occorreva fare bene il conto di quello che si comprava e di cui si poteva disporre.
Una situazione che, per l’epoca, era abbastanza normale e che, purtroppo, si sta riporducendo adesso per moltissime famiglie.
Quello che era diverso è che i miei genitori (e i miei nonni) venivano da situazioni ancor più difficili, dove non era facilissimo mettere insieme il pranzo con la cena, dove non ci si poteva permettere di comprare abiti nuovi e tutto veniva riciclato tra fratelli e sorelle e dove, in tempo di guerra, occorreva razionare qualunque cosa.
Si facevano chilometri a piedi per andare a prendere “la giornata” di disoccupazione (ogni giorno capite?), l’unico mezzo di trasporto era una bicicletta, dovevi lasciare la scuola dopo le elementari (o le medie se eri fortunato) e andare subito a lavorare a 13-14 anni, magari facendo chilometri in bicicletta per recarti al luogo di lavoro soprattutto se venivi dalla campagna come i miei genitori.
Dove possedere un cappotto o un paio di scarpe che ti andassero bene era un lusso, e quindi andare a ballare nelle balere era possibile, se riuscivi ad avere un paio di scarpe decenti per farlo. Dove per divertirsi gli uomini andavano a giocare a carte al bar e l’unica spesa, oltre ad un bicchiere di vino, era comprarsi le sigarette, dove le donne nel tempo libero dovevano imparare a cucire perché si potevano fare i vestiti e il corredo.
Dove i pranzi erano costitutiti prevalentemente da patate e polenta e il burro te lo facevi in casa. Molti non avevano acqua corrente e tanto meno acqua calda per lavarsi salvo scaldarla in una pentola.
Insomma, io non ho vissuto tutto questo, ma i miei genitori e i miei nonni, che hanno vissuto anche la guerra, si. I loro racconti hanno accompagnato la mia infanzia e, complice un pessimismo di fondo che ha sempre aleggiato in casa mia, devo aver assorbito che… “non si sa mai un domani.
Ovvero, tutto quello che hai potrebbe non esserci più e i tuoi vestiti vecchi potrebbero far comodo.
Tutto questo per riflettere sul fatto che, è vero che siamo in crisi, che moltissime famiglie hanno problemi terribili a seguito della perdita di lavoro, ma che molti di noi e soprattutto molti delle generazioni più giovani, non sono in grado di concepire il sacrificio.
Se riuscissimo tutti quanti a ridimensionarci, a rinunciare a qualcosa, ad accontentarci dei lavori più umili, a riciclare gli abiti e a girare un po’ meno in macchina, forse riusciremmo a risollevarci da questa profonda voragine che ci sta inghiottendo tutti.
Il mio è solo un pensiero, ma sapete che i miei pensieri li trasmetto sempre, sotto forma di parole, per una riflessione comune e questo pensiero in particolare mi sta molto a cuore in questo periodo.
Il prossimo cambio degli armadi sarà all’insegna di “liberati delle cose che non ti vanno più bene e regalale a qualcuno che le apprezzerà più di quanto lo possa fare un angolo del tuo armadio”.
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